LA TESTIMONIANZA DI FRANCA, UN MARITO E UN FIGLIO MORTI NEI CANTIERI
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E scono di casa all’alba, quando è ancora buio. Spesso nessuno li saluta più. Tornano a casa col buio, quando la famiglia è ormai presa dalla stanchezza e dall’indifferenza del tran-tran quotidiano. A volte qualcuno non fa più ritorno. E allora arriva una telefonata strana, bugiarda. Una corsa all’ospedale oppure sul luogo di lavoro del marito o del figlio e la scoperta della verità. Allora è come se un pugno ti colpisse nello stomaco, fino a farti strizzare le interiora. L’uomo della tua vita, il figlio al quale hai dato la vita sono esangui, spappolati, irriconoscibili, sotto un lenzuolo della camera mortuaria. Solo allora riesci a gridare tutta l’infelicità che ti si è stretta nello stomaco. Poi, riprende la vita grigia di tutti i giorni, macinando le sofferenze, triturando i sentimenti, distruggendo qualsiasi senso di vitalità. La solidarietà degli altri scompare dopo poco e si resta così totalmente soli, senza sicurezze, senza affetti, senza amore. Invisibili per la società, fantasmi che parlano al vento per la gente che ti sta vicino. Franca Mulas, 46 anni, dall’assolata Nuoro è arrivata alla brumosa Bergamo molto tempo fa. Qui si è sposata, ha avuto sei figli e fino al luglio del 2001 aveva anche un marito, Gianfranco. Ora è rimasta vedova, ma anche madre privata di un figlio, Luciano, pure lui morto per lavoro. Franca è una dei volti e delle voci protagonisti del film di Daniele Segre “Morire di lavoro”.
D. Cosa succede Franca, dentro di sé, quando arriva quella telefonata?
R “Al telefono non mi hanno detto subito quello che era successo veramente a mio figlio Luciano. Era il 28 aprile del 2000, sono andata di corsa all’ospedale e nessuno mi diceva come stavano le cose. Mi ripetevano solo che era grave, anche mio marito Gianfranco. L’ho saputo solo la sera, quando sono tornata a casa dall’ospedale. A casa c’era mio zio, frate, che mi ha colto di sorpresa facendomi le condoglianze. Sono svenuta subito, perché pensavo ancora che mio figlio fosse grave, ma che si sarebbe salvato. Dentro di me tutto il giorno mi ripetevo che mi sarei “mangiata la casa”, ma che avrei speso tutto pur di salvarlo. E invece è morto a 22 anni, il 28 aprile del 2000, in un cantiere di Brioso vicino Milano, mentre lavorava alla costruzione di un Centro per anziani. Mio marito guidava la gru con le travi da spostare sul tetto, ma queste si sono sganciate e sono scivolate a terra da 20, 30 metri. Mio figlio era lì sotto insieme ad un altro. Mio marito gridava “spostatevi! Spostatevi!”: ma non c’è stato niente da fare. Per Gianfranco è stato un incubo. Si è sentito sempre colpevole: “doveva capitare a me non a lui”, mi ripeteva sempre. Mio figlio aveva sempre lavorato in regola, ma quel giorno non era coperto dall’assicurazione. E’ morto il 28 aprile e il suo padrone, invece, ha pagato l’assicurazione il Primo di Maggio. Quindi, da allora ho fatto la causa. Ho vinto in prima istanza e in appello, ma finora non ho avuto nemmeno un Euro di risarcimento”.
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D. Poi è successo a tuo marito. Anche in quel caso ti è arrivata la telefonata particolare?
R. “Quel giorno, il 23 luglio del 2001, mio figlio più piccolo aveva rotto il quadro con la foto di Luciano e mi aveva chiesto di andare a comperare la cornice. Quando sono tornata, ho visto una chiamata sul telefono di casa. Ho richiamato, mi hanno risposto che era l’ospedale e mi hanno detto cosa volevo. Risposi: nulla, da loro!. Ho rimesso giù ed è arrivata un’altra strana telefonata di uno zio di mio marito, molto imbarazzato, che chiedeva se Gianfranco era arrivato a casa. Eppure, anche lui sapeva che prima di quell’ora mio marito non rincasava. Mi sono insospettita e allora ho ritelefonato all’ospedale, chiedendo cosa era successo. Mi hanno detto che mio marito aveva avuto un incidente, che era grave e di andare subito. Quando sono arrivata a Varese, era già nella camera mortuaria. Gianfranco stava montando dei ponteggi con la gru. La piattaforma si è ribaltata e lui è caduto da 15 metri. Si è insaccato per terra ed è morto per le fratture, dopo un’agonia di alcune ore. Ora vivo con la pensione di reversibilità di mio marito: 1500 euro al mese”
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D. Essere una vedova e madre che perso un figlio, entrambi morti per il lavoro, in che modo le ha cambiato la vita?
R “In tutti i sensi. Non sono più la stessa, la mia famiglia è rovinata, non è più felice. Prima eravamo felici, ora siamo distrutti. Tutto quello che faccio non ha più senso, nemmeno mettere da parte qualche soldo. Quelli che avevo, comunque, li ho spessi tutti per comprare due casse da morto e due posti al cimitero. Come ha visto nel film di Segre, non siamo considerate, sembriamo vuote. Sì, dei vuoti presi e messi da parte. Si dà più senso alla vita degli animali, che non ad una persona che muore sul lavoro. Come donna non vivo più, non ho più intenzione di rifarmi una vita. Un altro Gianfranco non c’è più! Sono diventata una donna di ghiaccio, non ho più sentimenti”.
D. Attorno a lei dopo i primi momenti di cordoglio, c’è stato dopo anche solidarietà?
R. “No, assolutamente no. Dopo la terza settimana, chiusa la porta, resti da sola e devi andare avanti, senza nessun aiuto”.
D. C’è anche il rischio di perdere la dignità?
R. “Questo no. Mi sento forte, ho una forza che prima non avevo. Adesso ce l’ho, posso andare davanti a tutti e dire quello che penso, quello che ho passato. Per me, Luciano e Gianfranco mi danno questa forza a testimoniare. Prima potevano anche calpestarmi, invece ora non più, mi ribello. A volte mi dico: ma quando qualcuno mi intervisterà in tv, per far capire queste cose che sono capitate a me e a tante altre vedove? Perchè non venga messo in ultimo piano questa cosa delle morti sul lavoro. E’ possibile che non si riesca a fare qualcosa per evitare queste morti qua?E’ come se queste persone, la mattina, si alzassero per andare in guerra e non a lavorare!”.
D. C’è qualcosa che la spinge a trovare fiducia nella vita oppure no?
R. “Non ho più fiducia di niente e nessuno. Il processo per mio marito ancora non si è nemmeno concluso. Il giudice ha ritenuto troppo colpevoli quelli della ditta e adesso deve ricominciare tutto il procedimento. Sono queste le cose che fanno più male. Anche perché a me, le mie persone care le ho pagate prima con la pelle e ora anche col portafoglio, perché gli avvocati costano e nessuno mi aiuta. Per mio figlio devono ancora fare i conti; mentre per mio marito ho solo spese legali. Un essere umano così viene ucciso due volte . Per questo la mia vita personale non esiste più. C’è sola la Franca che vive per affermare i propri diritti e il rispetto per due morti”. .
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E scono di casa all’alba, quando è ancora buio. Spesso nessuno li saluta più. Tornano a casa col buio, quando la famiglia è ormai presa dalla stanchezza e dall’indifferenza del tran-tran quotidiano. A volte qualcuno non fa più ritorno. E allora arriva una telefonata strana, bugiarda. Una corsa all’ospedale oppure sul luogo di lavoro del marito o del figlio e la scoperta della verità. Allora è come se un pugno ti colpisse nello stomaco, fino a farti strizzare le interiora. L’uomo della tua vita, il figlio al quale hai dato la vita sono esangui, spappolati, irriconoscibili, sotto un lenzuolo della camera mortuaria. Solo allora riesci a gridare tutta l’infelicità che ti si è stretta nello stomaco. Poi, riprende la vita grigia di tutti i giorni, macinando le sofferenze, triturando i sentimenti, distruggendo qualsiasi senso di vitalità. La solidarietà degli altri scompare dopo poco e si resta così totalmente soli, senza sicurezze, senza affetti, senza amore. Invisibili per la società, fantasmi che parlano al vento per la gente che ti sta vicino. Franca Mulas, 46 anni, dall’assolata Nuoro è arrivata alla brumosa Bergamo molto tempo fa. Qui si è sposata, ha avuto sei figli e fino al luglio del 2001 aveva anche un marito, Gianfranco. Ora è rimasta vedova, ma anche madre privata di un figlio, Luciano, pure lui morto per lavoro. Franca è una dei volti e delle voci protagonisti del film di Daniele Segre “Morire di lavoro”.
D. Cosa succede Franca, dentro di sé, quando arriva quella telefonata?
R “Al telefono non mi hanno detto subito quello che era successo veramente a mio figlio Luciano. Era il 28 aprile del 2000, sono andata di corsa all’ospedale e nessuno mi diceva come stavano le cose. Mi ripetevano solo che era grave, anche mio marito Gianfranco. L’ho saputo solo la sera, quando sono tornata a casa dall’ospedale. A casa c’era mio zio, frate, che mi ha colto di sorpresa facendomi le condoglianze. Sono svenuta subito, perché pensavo ancora che mio figlio fosse grave, ma che si sarebbe salvato. Dentro di me tutto il giorno mi ripetevo che mi sarei “mangiata la casa”, ma che avrei speso tutto pur di salvarlo. E invece è morto a 22 anni, il 28 aprile del 2000, in un cantiere di Brioso vicino Milano, mentre lavorava alla costruzione di un Centro per anziani. Mio marito guidava la gru con le travi da spostare sul tetto, ma queste si sono sganciate e sono scivolate a terra da 20, 30 metri. Mio figlio era lì sotto insieme ad un altro. Mio marito gridava “spostatevi! Spostatevi!”: ma non c’è stato niente da fare. Per Gianfranco è stato un incubo. Si è sentito sempre colpevole: “doveva capitare a me non a lui”, mi ripeteva sempre. Mio figlio aveva sempre lavorato in regola, ma quel giorno non era coperto dall’assicurazione. E’ morto il 28 aprile e il suo padrone, invece, ha pagato l’assicurazione il Primo di Maggio. Quindi, da allora ho fatto la causa. Ho vinto in prima istanza e in appello, ma finora non ho avuto nemmeno un Euro di risarcimento”.
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D. Poi è successo a tuo marito. Anche in quel caso ti è arrivata la telefonata particolare?
R. “Quel giorno, il 23 luglio del 2001, mio figlio più piccolo aveva rotto il quadro con la foto di Luciano e mi aveva chiesto di andare a comperare la cornice. Quando sono tornata, ho visto una chiamata sul telefono di casa. Ho richiamato, mi hanno risposto che era l’ospedale e mi hanno detto cosa volevo. Risposi: nulla, da loro!. Ho rimesso giù ed è arrivata un’altra strana telefonata di uno zio di mio marito, molto imbarazzato, che chiedeva se Gianfranco era arrivato a casa. Eppure, anche lui sapeva che prima di quell’ora mio marito non rincasava. Mi sono insospettita e allora ho ritelefonato all’ospedale, chiedendo cosa era successo. Mi hanno detto che mio marito aveva avuto un incidente, che era grave e di andare subito. Quando sono arrivata a Varese, era già nella camera mortuaria. Gianfranco stava montando dei ponteggi con la gru. La piattaforma si è ribaltata e lui è caduto da 15 metri. Si è insaccato per terra ed è morto per le fratture, dopo un’agonia di alcune ore. Ora vivo con la pensione di reversibilità di mio marito: 1500 euro al mese”
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D. Essere una vedova e madre che perso un figlio, entrambi morti per il lavoro, in che modo le ha cambiato la vita?
R “In tutti i sensi. Non sono più la stessa, la mia famiglia è rovinata, non è più felice. Prima eravamo felici, ora siamo distrutti. Tutto quello che faccio non ha più senso, nemmeno mettere da parte qualche soldo. Quelli che avevo, comunque, li ho spessi tutti per comprare due casse da morto e due posti al cimitero. Come ha visto nel film di Segre, non siamo considerate, sembriamo vuote. Sì, dei vuoti presi e messi da parte. Si dà più senso alla vita degli animali, che non ad una persona che muore sul lavoro. Come donna non vivo più, non ho più intenzione di rifarmi una vita. Un altro Gianfranco non c’è più! Sono diventata una donna di ghiaccio, non ho più sentimenti”.
D. Attorno a lei dopo i primi momenti di cordoglio, c’è stato dopo anche solidarietà?
R. “No, assolutamente no. Dopo la terza settimana, chiusa la porta, resti da sola e devi andare avanti, senza nessun aiuto”.
D. C’è anche il rischio di perdere la dignità?
R. “Questo no. Mi sento forte, ho una forza che prima non avevo. Adesso ce l’ho, posso andare davanti a tutti e dire quello che penso, quello che ho passato. Per me, Luciano e Gianfranco mi danno questa forza a testimoniare. Prima potevano anche calpestarmi, invece ora non più, mi ribello. A volte mi dico: ma quando qualcuno mi intervisterà in tv, per far capire queste cose che sono capitate a me e a tante altre vedove? Perchè non venga messo in ultimo piano questa cosa delle morti sul lavoro. E’ possibile che non si riesca a fare qualcosa per evitare queste morti qua?E’ come se queste persone, la mattina, si alzassero per andare in guerra e non a lavorare!”.
D. C’è qualcosa che la spinge a trovare fiducia nella vita oppure no?
R. “Non ho più fiducia di niente e nessuno. Il processo per mio marito ancora non si è nemmeno concluso. Il giudice ha ritenuto troppo colpevoli quelli della ditta e adesso deve ricominciare tutto il procedimento. Sono queste le cose che fanno più male. Anche perché a me, le mie persone care le ho pagate prima con la pelle e ora anche col portafoglio, perché gli avvocati costano e nessuno mi aiuta. Per mio figlio devono ancora fare i conti; mentre per mio marito ho solo spese legali. Un essere umano così viene ucciso due volte . Per questo la mia vita personale non esiste più. C’è sola la Franca che vive per affermare i propri diritti e il rispetto per due morti”. .
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