CINEMA - Un viaggio nella galassia del lavoro nero, dei precari che "per 50 euro al giorno" rischiano quotidianamente la vita nei cantieri edili, raccontato dai volti e dalle voci degli stessi lavoratori. È "Morire di lavoro", l'ultimo film del regista Daniele Segre, presentato in anteprima a Roma
.Mai come in questo inizio d'anno, l'insufficienza di "tutela del lavoro, di vita sul lavoro" lamentata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo messaggio di fine anno sembra essere stata ascoltata. Dopo il film di Wilma Labate "SignorinaEffe" e il documentario di Francesca Comencini "In Fabbrica", è ora la volta di "Morire di lavoro", ultima fatica del regista alessandrino Daniele Segre (Che Aprileonline.info ha intervistato l'11 gennaio scorso), presentato martedì in anteprima alla Sala del Cenacolo della Camera dei Deputati.
Un viaggio nella galassia del lavoro nero, dei precari che "per 50 euro al giorno" rischiano quotidianamente la vita nei cantieri edili, raccontato dagli stessi lavoratori. Il documentario è infatti una lunga carrellata di testimonianze: primi piani di uomini e donne che raccontano la propria vita e, tristemente, la propria morte. I volti, le voci sono preponderanti, raccontano una storia che non viene raccontata, nel film come nel mondo reale. "Morire di lavoro", infatti, non ha una trama, non ha una voce narrante che guidi lo spettatore. Ci sono soltanto loro: manovali, operai, muratori, stranieri e italiani, del Mezzogiorno come del Settentrione. Le loro mogli, le loro madri, che li hanno visti uscire di casa al mattino presto, e non li hanno mai più visti tornare.
Un viaggio, nel quale si manifesta l'intenzione di raccontare un'Italia in cui la dignità dei lavoratori non viene rispettata, un Paese che ha dimenticato l'articolo 1 della Costituzione italiana, su cui l'intera Carta fondamentale del nostro Paese si fonda: "L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro". Non c'è retorica, non c'è la ricerca della drammatizzazione a tutti i costi. Il film si accontenta di mostrare le tante sfaccettature che compongono questo universo: il caporalato, la logica dei subappalti al massimo ribasso, il lavoro irregolare, l'illegalità diffusa, l'assoluta libertà nell'applicazione dei dispositivi di sicurezza. L'incuranza delle norme, che pure esistono, ma non vengono rispettate. Il "domani ti metto in regola", che diviene "oggi" soltanto il giorno in cui ci si fa male davvero, affinché si risulti legalmente assunti nel momento in cui sopraggiungeranno i controlli, immancabili ma perennemente tardivi.
In cantiere manca il coraggio di parlare di lavoro nero. Di fronte alle visite dell'ispettorato del lavoro, sempre conosciute con largo anticipo, si fugge o si fa in modo di mostrarsi preparati. Perché se il controllo "ti becca, domani non potrai lavorare". I cosiddetti DPI, i Dispositivi di Protezione Individuale, dovrebbero essere obbligatori. Ma quasi mai vengono forniti dai datori di lavoro, che in compenso impongono agli operai di firmare una liberatoria in cui dichiarano di averli comunque ricevuti. Molti di essi scelgono di comprarseli da soli. Ma la maggior parte ha ben altre spese cui far fronte entro la fine del mese.
"In questo mestiere se non sei sveglio la prima cosa che fai è farti male", racconta un operaio. "Il lavoro che ti offrono non è mai quello che vorresti, ma tu accetti perché hai una famiglia, e devi tirare avanti". Speri in un lavoro regolare, ma finisci per accettarne uno in nero, e se ti fai male racconti in giro che l'incidente ti è capitato in casa, o mentre eri alla guida. Un muratore immigrato, mai regolarizzato, "parla" da morto: "In Africa diciamo che anche a un elefante basta un solo giorno per morire. Qui in Italia ho capito che l'elefante ero io, e che per morire in cantiere mi bastavano solo due ore".
In Italia muore un lavoratore ogni sette ore: nel 2007 solo nel settore edile si sono contati oltre 235 infortuni mortali. Una stima certamente arrotondata per difetto, complice la difficoltà di reperire notizie sulla totalità degli infortuni. Una conta dei morti "da guerra civile" per il presidente della Camera Fausto Bertinotti che, intervenendo alla presentazione del documentario, ha richiamato l'assoluta necessità di "squarciare l'oscurità in cui versano lavoratrici e lavoratori". Un oscuramento che non riguarda solo i lavoratori, ma anche le opere che li ritraggono: sarebbe bello vedere un film del genere in prima serata, magari su Rai Uno, ha concluso Bertinotti. Già, sarebbe bello. Sarebbe bello se il "Servizio pubblico" non accettasse passivamente la dittatura del "pubblico" - di quell'audience dai contorni indefiniti ma che con i suoi ascolti riesce a comandare a bacchetta la programmazione delle emittenti televisive e chiede soltanto Isole dei Famosi e Delitti di Cogne - e proponesse le storie di vita di un mondo invisibile come è quello degli operai e dei manovali. Sarebbe bello se almeno la Rai non avesse negato il finanziamento del documentario - che Segre si è dovuto produrre da solo con la sua società i Cammelli - come invece ha fatto. Sarebbe bello. Se..
Un viaggio nella galassia del lavoro nero, dei precari che "per 50 euro al giorno" rischiano quotidianamente la vita nei cantieri edili, raccontato dagli stessi lavoratori. Il documentario è infatti una lunga carrellata di testimonianze: primi piani di uomini e donne che raccontano la propria vita e, tristemente, la propria morte. I volti, le voci sono preponderanti, raccontano una storia che non viene raccontata, nel film come nel mondo reale. "Morire di lavoro", infatti, non ha una trama, non ha una voce narrante che guidi lo spettatore. Ci sono soltanto loro: manovali, operai, muratori, stranieri e italiani, del Mezzogiorno come del Settentrione. Le loro mogli, le loro madri, che li hanno visti uscire di casa al mattino presto, e non li hanno mai più visti tornare.
Un viaggio, nel quale si manifesta l'intenzione di raccontare un'Italia in cui la dignità dei lavoratori non viene rispettata, un Paese che ha dimenticato l'articolo 1 della Costituzione italiana, su cui l'intera Carta fondamentale del nostro Paese si fonda: "L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro". Non c'è retorica, non c'è la ricerca della drammatizzazione a tutti i costi. Il film si accontenta di mostrare le tante sfaccettature che compongono questo universo: il caporalato, la logica dei subappalti al massimo ribasso, il lavoro irregolare, l'illegalità diffusa, l'assoluta libertà nell'applicazione dei dispositivi di sicurezza. L'incuranza delle norme, che pure esistono, ma non vengono rispettate. Il "domani ti metto in regola", che diviene "oggi" soltanto il giorno in cui ci si fa male davvero, affinché si risulti legalmente assunti nel momento in cui sopraggiungeranno i controlli, immancabili ma perennemente tardivi.
In cantiere manca il coraggio di parlare di lavoro nero. Di fronte alle visite dell'ispettorato del lavoro, sempre conosciute con largo anticipo, si fugge o si fa in modo di mostrarsi preparati. Perché se il controllo "ti becca, domani non potrai lavorare". I cosiddetti DPI, i Dispositivi di Protezione Individuale, dovrebbero essere obbligatori. Ma quasi mai vengono forniti dai datori di lavoro, che in compenso impongono agli operai di firmare una liberatoria in cui dichiarano di averli comunque ricevuti. Molti di essi scelgono di comprarseli da soli. Ma la maggior parte ha ben altre spese cui far fronte entro la fine del mese.
"In questo mestiere se non sei sveglio la prima cosa che fai è farti male", racconta un operaio. "Il lavoro che ti offrono non è mai quello che vorresti, ma tu accetti perché hai una famiglia, e devi tirare avanti". Speri in un lavoro regolare, ma finisci per accettarne uno in nero, e se ti fai male racconti in giro che l'incidente ti è capitato in casa, o mentre eri alla guida. Un muratore immigrato, mai regolarizzato, "parla" da morto: "In Africa diciamo che anche a un elefante basta un solo giorno per morire. Qui in Italia ho capito che l'elefante ero io, e che per morire in cantiere mi bastavano solo due ore".
In Italia muore un lavoratore ogni sette ore: nel 2007 solo nel settore edile si sono contati oltre 235 infortuni mortali. Una stima certamente arrotondata per difetto, complice la difficoltà di reperire notizie sulla totalità degli infortuni. Una conta dei morti "da guerra civile" per il presidente della Camera Fausto Bertinotti che, intervenendo alla presentazione del documentario, ha richiamato l'assoluta necessità di "squarciare l'oscurità in cui versano lavoratrici e lavoratori". Un oscuramento che non riguarda solo i lavoratori, ma anche le opere che li ritraggono: sarebbe bello vedere un film del genere in prima serata, magari su Rai Uno, ha concluso Bertinotti. Già, sarebbe bello. Sarebbe bello se il "Servizio pubblico" non accettasse passivamente la dittatura del "pubblico" - di quell'audience dai contorni indefiniti ma che con i suoi ascolti riesce a comandare a bacchetta la programmazione delle emittenti televisive e chiede soltanto Isole dei Famosi e Delitti di Cogne - e proponesse le storie di vita di un mondo invisibile come è quello degli operai e dei manovali. Sarebbe bello se almeno la Rai non avesse negato il finanziamento del documentario - che Segre si è dovuto produrre da solo con la sua società i Cammelli - come invece ha fatto. Sarebbe bello. Se..
Vittorio Strampelli .
12\02\2008 .
FONTE : http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=6349